
[di Giorgia Fattorelli – Foto fonte web] Emozioni. La parola giusta, credo, sia proprio questa. Tutto inizia quando da bambini si guardano le partite di calcio, di basket, di pallavolo, o le spettacolari coreografie di ballerini e ginnaste. La fantasia gioca un ruolo fondamentale: ci si immagina correre dietro ad un pallone dalla parte opposta del campo e, magari, segnare il goal della vittoria. Si immagina il pubblico esultare e gridare il tuo nome. Credo che tutti, almeno una volta, abbiano sognato di provare quell’emozione.
Perché lo sport è proprio l’emozione che ti fa scegliere, non la logica. Questo, almeno, è quello che è stato per me quando, già in tenera età, rimanevo per ore e ore a guardare lo schermo della televisione, quando dalle Olimpiadi trasmettevano quello che sarebbe diventato il mio sport: il nuoto sincronizzato. Uno sport che probabilmente molti di voi conoscono poco o solo perché, per sbaglio, durante le giornate olimpiche la televisione ha offerto proprio e solo quello sport dove le tutte le atlete devono fare la stessa cosa insieme, tutte sorridenti, come se per loro fosse fin troppo poco faticoso fare quello che fanno.
Ebbene sì, proprio loro, quelle ragazze truccate un po’ alla Moira Orfei, hanno ispirato la mia fantasia fin dalla tenera età. Ma qui non annoierò con dettagli tecnici, perché trovo più importante raccontare le sensazioni, l’adrenalina, l’ansia, la paura di sbagliare, il coraggio e la gioia ineguagliabile della vittoria: raccontare di tutte quelle emozioni che si nascondono dietro quello sguardo concentrato.
Poche persone, probabilmente, saranno conoscenza della quantità di ore necessarie per addobbarsi come un albero di Natale prima di salire sulla pedana: e vi assicuro che farlo prima di una gara importante, quando il battito cardiaco aumenta a dismisura e mettere l’eye-liner sulla palpebra dell’occhio, senza sembrare un panda in estinzione, può diventare un’impresa davvero difficile. O di quanto indossare quei costumi stupendi e “impaiettati” sia in realtà una tortura. Va da sé che chi non lo ha vissuto non possa sapere della preparazione e dell’allenamento necessario prima di salire sulla pedana. Io ho avuto il privilegio di viverlo e, ora, di poterlo raccontare.
Quando ci si prepara per una competizione nazionale mantenere la concentrazione è importante: nonostante il battito cardiaco sia accelerato e le mani inizino a sudare, è necessario avere la situazione sotto controllo, anche se non è per nulla scontato e nemmeno facile. Il tempo in cui si rimaneva sulle tribune a prepararsi, provare e riprovare, aspettare che arrivasse il momento di iniziare, rimane qualcosa indelebile nella mente di un’atleta.
Così come la sensazione che si prova durante l’attesa, un misto tra piacere e paura che ti accompagna per tutto momento che precede la competizione. Le emozioni, poi, iniziano a farsi più intense quando si avvicina il momento di entrare in acqua e tutto improvvisamente sembra fermarsi, il mondo che sta fuori diventa più lento, le voci degli altri sembrano un’eco in lontananza appena percettibile.
Aumenta la percezione del battito cardiaco, il formicolio sulle mani e sui piedi, e improvvisamente il respiro si fa corto: è arrivata l’ora. E così ci si prepara tutte infila, una dietro l’altra sulla pedana prima dell’inizio. E quel momento diviene il momento: è lì che si sprigionano le sensazioni che attendevi, dove la paura diventa adrenalina e l’ansia diventa coraggio. È lì che senti, veramente, di appartenere a una squadra.
Quando l’arbitro fischia, ti tuffi ed è fatta: l’ansia sparisce e senza accorgertene ti trovi in acqua ad eseguire la coreografia che hai preparato tutto l’anno, che hai provato centinaia di volte fino a che ogni movimento diventa talmente automatico da non dover nemmeno pensare a quello che stai facendo. Anche perché non ce ne sarebbe il tempo. Cinque minuti e tutto è finito. Ore e ore di prove, di sacrifici, di rinunce, spesso di pianti per la fatica e tutto questo per qualche minuto, intenso e infinito, di emozioni.