
[di Emanuela Macrì] Come si misura la distanza fra Memoria e Storia? E come si misura la differenza fra le memorie dei singoli? E ancora, può un evento devastante quanto solo una guerra lasciare nella memoria e sul territorio impronte tanto diverse tra loro? O, non lasciarne alcuna? Domande che risuonano nell’anima dopo la visione di Souvenirs of war, lavoro del regista tedesco Georg Manuel Zeller presentato nella sezione Orizzonti Vicini del 72mo Trento Film Festival.
Un viaggio, il suo, compiuto su più gambe, visto da più occhi, angolazioni. Dallo sguardo del veterano di guerra a quello del turista guidato, per arrivare alle mani dell’imprenditore o del giocatore (??) di softair. Perché la Bosnia che esce dai fotogrammi è una terra sospesa tra le ferite mai rimarginate e una pelle nuova, intatta. Tra ciò che rimane di un massacro, che siano i ruderi degli edifici bombardati e poi abbandonati o un istituto di medicina legale che tenta di ricomporre destini attraverso i resti umani ritrovati, e ciò che di quella tragedia è stato rimosso, coperto, cancellato.
Un’opera che trova nel documentario la sua forma migliore, ottimale. Con le voci a raccontare. Del dolore per la scomparsa di un padre di cui non si è ancora conosciuto il destino, di una vita in cui le conseguenze della sindrome da stress post traumatico hanno rotto ogni rapporto affogandolo in alcool e droghe, delle generazioni sfiorate dal macello che cercano l’adrenalina della guerra simulata nei luoghi dove nessun dramma è stato finto.
Storie così diverse e distanti, eppure così vicine geograficamente. Distanze che colpiscono. E che pongono l’interrogativo sulla gestione della memoria, sulle modalità di affrontare un passato tanto prossimo che non può subire un processo di rimozione. Ma nemmeno ingabbiare.