[di Noemi Mendola – foto fonte web] E’ stato sufficiente un breve comunicato che, già, è svolta epocale: siamo all’alba di un evento che cambierà inevitabilmente il mondo sportivo. I videogames, sotto il nome più accattivante di eSports, entreranno nel novero dei Giochi Olimpici forse già a partire da Parigi 2024, secondo quanto dichiarato dal CIO (Comitè International Olympique). Attenzione all’euforia però: non tutti i videogiocatori potranno sfidarsi ad alto livello. Ci saranno, infatti, sia gli agonisti che semplici appassionati, come in ogni altro sport e questa novità potrebbe indurre la figura stereotipata del nerd, finalmente, a tramontare. Ad ogni modo sarebbe potuto accadere prima, dato che le competizioni videoludiche internazionali hanno già avuto luogo in passato: tra le più famose va ricordata la DotA, una custom map di Warcraft III. La notizia non veicola, pertanto, una completa novità del settore, nonostante la buona accoglienza generale e le derivanti aspettative.
In ambiente economico ci si è chiesti se sia giusto dipendere dalle case produttive di videogiochi, mentre i giuristi hanno fatto notare la mancanza di un’organizzazione globale che normi gli eSports. Anzichè occuparsi del come, a quanto pare, faremo meglio a preoccuparci del cosa. Osservando quanto comunicato, infatti, il CIO vuole «promuovere la non violenza, la non discriminazione e la pace tra le persone», ed è inevitabile che videogames basati su tali valori non verranno approvati, quand’anche molto noti al grande pubblico.
Gli eSports non sono tuttavia lo strumento adatto per diffondere un messaggio di pace, seppur obbligato nel clima di tensione attuale: la violenza dei videogiochi ha infatti decretato il successo dell’industria videoludica, come è evidente studiandone la storia. Eliminare a priori una categoria così rappresentativa è innanzitutto un azzardo che accresce le attese. Ma è realmente una decisione corretta? Nelle Olimpiadi al tempo dell’antica Grecia si svolgevano agoni – lotta e pugilato – per dimostrare la propria bravura, senza avere come obiettivo la morte l’avversario. Consistevano quindi in simulazioni, e come tali non sono molto diversi da ciò che accade oggi virtualmente nei videogiochi.
La non discriminazione è anch’esso un tema saliente per il Comitato Olimpico, comprensibile come reazione all’esigenza di uguaglianza presente in innumerevoli ambiti sociali. Anche in questo caso si tratta, però, di un proposito vano perché il mondo stesso dei (futuri) eSports è colmo di discriminazioni: sono presenti sia nei giochi stessi che vengono fruiti sia nell’atteggiamento della maggioranza dei giocatori nei confronti delle minoranze – come il genere femminile – ritenute a torto inadeguate. Il linguaggio stesso di cui oltretutto si servono le persone nei videogames più usati, quelli online, spesso tradisce sentimenti tutt’altro che integrativi. E ciò è lampante anche nei loro comportamenti.
La novità è innegabile. Tuttavia viene da chiedersi se effettivamente la disciplina, destinata all’Olimpo, sia stata analizzata e compresa. I videogiochi adeguati ai criteri desiderati esistono davvero? Oppure si ha soltanto fiutato il potenziale divulgativo e pubblicitario di una tale innovazione? Forse converrebbe sedersi sul divano, armarsi di joystick, e giocare davvero.