
[di Alessia Giordano – Foto web]
Il dolore legato alla perdita, l’amarezza che essa comporta e la sofferenza che Barbara Dunmore Ford, madre della vittima, mostra di provare mentre racconta la vicenda vissuta nell’intimo nucleo familiare rappresentano la chiave di lettura esatta per l’interpretazione del documentario Strong Island. Diretto da Yance Ford, noto regista afroamericano, presenta, infatti, la storia della famiglia Ford e della fame di giustizia scatenata, nel 1992, dall’uccisione di William (primogenito) da parte di Mark Reilly, un bianco di diciannove anni. L’opinione di Yance è subito chiara: “chiunque abbia problemi a sostenere la vista di un uomo nero assassinato dovrebbe uscire dal cinema e tornare nella bolla da cui proviene”.
Le riprese portano alla scoperta un fatto da sempre ignorato; ci si chiede come sia possibile che un caso di omicidio non venga presentato in tribunale solo perché il colpevole è un individuo bianco.
La reazione della famiglia in lutto di fronte al silenzio della giuria che decide di reputare l’omicida innocente conduce, inesorabilmente, ad una risposta colma di odio e risentimento. La diversificazione crudamente evidenziata dalla società rappresenta la base su cui viene costruito il falso senso della forma che la giustizia dovrebbe avere e che, invece, non ha.
Dominante è il clima di razzismo di cui la famiglia nera, insieme alla maggioranza afroamericana, è vittima nel quartiere di New York, luogo prossimo ad un rapido declino. La presunzione dell’esistenza delle razze, ancora oggi presente in molteplici aree del mondo, costringe molte persone a limiti totalmente ed indiscutibilmente ingiustificati.
Non si tratta solo di differenze economiche, tante volte non è nemmeno questo il problema più grave, ma di lotta per la sopravvivenza dal momento che l’unica vera ricchezza è quella di essere bianchi.
I rapporti umani sono regolati da uno stato di sopraffazione reciproca che si estranea spesso dall’eticità e dall’ottimismo. Criminalità, vendetta e violenza sono, ancora oggi, dopo parecchi anni, fattori che muovono l’uomo nella speranza di un desiderio di onnipotenza e di autorità sugli altri a discapito, quindi, di tutta quella gente che rimane vittima di crudi crimini espressi da morti ricorrenti.
I bisogni degli individui oppressi da questa perseguitazione restano inascoltati da forme di superiorità apparentemente impareggiabili e, soprattutto, soffocati dalla paura dell’attesa della fine.
“Quello che conta è il carattere, non il colore” (citazione presa dal documentario); ciò secondo cui una persona va giudicata è il “contenuto”, l’essenza di quella particolare anima che ci sta di fronte; perché, altrimenti, quello che ne esce sono solamente vite segnate da un insindacabile oscurità che non può, in alcun modo, essere perdonata.
Perciò, ripescando un pensiero di Margherita Hack, “cerchiamo di vivere in pace, qualunque sia la nostra origine, la nostra fede, il colore della nostra pelle, la nostra lingua e le nostre tradizioni. Impariamo a tollerare e ad apprezzare le differenze. Rigettiamo con forza ogni forma di violenza, di sopraffazione, la peggiore delle quali è la guerra”.