[di Emanuela Macrì – foto Cucchetti, Marini e Miccoli] “L’umiltà e la semplicità sono le due vere sorgenti della bellezza”. A sostenerlo era Johann Joachim Winckelmann, teorico del Neoclassicismo, il movimento artistico che tra Settecento e Ottocento guardava al passato e alla classicità, riproponendone stile e dogmi e la bellezza della semplicità.
Come quella del sorriso di Francesca Ferretti, palleggiatrice oggi alla Liu Jo Nordmeccanica Modena, già regista della Nazionale e ancor prima del Club Italia, passando per Chieri, Pesaro e Piacenza, in rigoroso ordine di comparizione. “O meglio – come precisa – solo Francesca. Una ragazza che, certo, fa un mestiere particolare, uno di quelli per cui le persone magari ti riconoscono per la strada. Ma io, nella vita, metto in primo piano la persona, Francy, cercando di essere la stessa fuori e dentro il campo, tranquilla e solare, vera. Non voglio pensare che una maglia indossata possa fare la differenza. Ci vuole la sostanza”. E pazienza, per darsi il giusto tempo per crescere e maturare.
“Soprattutto in un ruolo, delicato, come quello della palleggiatrice, perché mette alla prova, anche se meno fisico rispetto ad altri dove il gesto atletico impegna maggiormente. La regia mette pressione dal punto di vista mentale ed è anche per questo che rispetto al ruolo si cambia davvero molto durante una carriera. Quale alzatrice maturi sportivamente verso i venticinque anni, indicativamente, quando l’esperienza acquisita si unisce a quell’imprescindibile autocontrollo che è il suo frutto migliore”. Un ruolo davvero tanto complesso? “Ho cercato spesso – racconta Francesca scherzando – di scambiarlo con quello di una schiacciatrice, ma nessuna mai ha accettato. Ci sarà pure un motivo, no?”
Forse perché la cabina di regia è il luogo dell’indulgenza, dove confluiscono aspettative e richieste della squadra “e le tantissime informazioni che arrivano in un decimo di secondo e devi cercare di trasformare in un’alzata confacente alle indicazioni della panchina, alle necessità del gioco, alle caratteristiche dell’attaccante”. Parole di un’atleta che di chilometri in campo ne ha fatti parecchi, come tanti sono stati i passi in avanti dal punto di vista del carattere. “Una volta ero molto permalosa. Oggi, invece, ho imparato a ridere di me e vivere con più allegria. Come si cambia e quanto aiutano gli anni che si aggiungono”. Già!
“A vent’anni ti fai trasportare solo dall’emozione e un errore può lasciare strascichi e cambiare il volto di una partita. Crescendo impari a mettere le mani e i piedi ma soprattutto a disfarti subito del lato negativo, ad assolverti per un errore commesso per rimanere focalizzata sull’obbiettivo. È così che ad un certo punto ti trovi a tagliare il traguardo della sicurezza, del gusto per il tuo ruolo, a gestire la partita con la giusta dose di emotività, vivere il minuto, l’azione, la palla”.
Perché ogni secondo è prezioso e sa trasformarsi in ricordo. Come i minuti cantati da Madonna, con Justin Timberlake e Timbaland, in quella 4 Minutes che se per molti è solo uno dei tanto brani passati in radio qualche anno fa, per Francesca è un treno diretto nel passato, senza fermate. Poche note capaci di riportare le lancette dell’orologio agli anni di Pesaro. “Quelli Zé Roberto e Angelo Vercesi, gli allenatori brasiliani che mi hanno insegnato quel volley veloce e pieno di combinazioni, quasi alla maschile, quello che adoro sebbene non sia proponibile sempre e ovunque. Anni di vera magia, di sintonia e grande amicizia, come quella con Carolina Costagrande, una compagna capace di regalarmi carica e sicurezza nel medesimo momento. Anni che anno cambiato la mia vita, in meglio, facendomi compiere quel passo decisivo verso la maturità”.
Iniziati, però, con un errore che Francesca rifarebbe. “Il primo contatto con la società marchigiana si era risolto con un mio rifiuto alla loro offerta. Un no di cui mi ero subito pentita, ma che non potevo risolvere nell’immediato avendo già preso un altro impegno che volevo rispettare. Poi ci ha pensato la vita ad aprirmi la strada a una seconda possibilità, quella che mi ha portato a Pesaro nel momento giusto. A conti fatti quel no è stato un errore giusto!” E che farà cucire sulla maglietta di Francy il suo primo scudetto. Un tricolore peraltro non estraneo alla reggiana Ferretti: la storia narra, infatti, che per sventolare sulla non ancora unita terra italica, la bandiera scelse la sua regione e più precisamente la sua Reggio. “Al centro di tutto, puntellata di piccoli centri non troppo lontani dalle grandi città, che hanno saputo mantenere la propria vitalità, le tradizioni, la veracità. Credo che l’Emilia sia davvero un posto davvero perfetto per vivere e crescere, anche grazie alla presenza dei suoi abitanti così cordiali e socievoli”.
Un posto dove vivere “e farsi una famiglia. Quello che vorrei nel mio futuro, anche se non ho ancora un’idea di precisa di quale vorrei fosse il mio domani. Non so quanti anni dedicherò ancora alla pallavolo giocata e tutto mi sembra vicino e lontano nello stesso momento. Da sempre il desiderio è quello di un’attività tutta mia a cui potermi dedicare, a cui dare un’impronta personale, nonostante mi renda conto non essere questo il momento migliore per gli investimenti. Allo stesso modo vorrei fare la mamma, anche se questo non è considerato un lavoro”.
Soprattutto se di professione sei un’atleta. “Tasto dolente (ma lo sapevamo N.d.R.). Il mondo del lavoro femminile, si sa, in tema di diritti è decisamente lacunoso. Nello sport e nel volley non tira un’aria migliore, anzi. Non ho vissuto il problema in prima persona ma mi è capitato di vedere compagne dover rinunciare al contratto per proseguire una gravidanza. E questo non è difficile capire come possa essere stato, ed essere ancora, un deterrente per molte altre di noi. Negli ultimi anni sono nate delle associazioni che stanno cercando di portare luce e attenzione sulla problematica ma la soluzione sembra ancora un miraggio. È sconcertante dover accettare il fatto di essere lavoratrici senza diritti, e non siamo l’unica categoria, purtroppo. Una normativa che tenga conto delle esigenze e che ci tuteli è quanto mai urgente. Siamo in ritardo di secoli”.
Tanti quanti, più o meno, quelli che dividono il Neoclassicismo dalle hit di Madonna, la colonna sonora della carriera di una giocatrice che ha saputo cogliere il lato elegante della semplicità e farne la sua forza. Prima di lasciarci, però, chiedo a Francesca di mettere da parte l’umiltà e pensare a una presentazione che le farebbe piacere facessero di lei: “Beh, se citassero quei cinque scudetti vinti non mi offenderei per nulla. È un grande orgoglio pensare di essere una delle pochissime giocatrici (da qualche giorno raggiunta nel primato da un’altra Francesca, che di cognome fa Piccinini e che quel quinto titolo l’ha vinto affrontando, in finale, proprio Francy e la sua Liu Jo Nordmeccanica Modena) in attività a poterli vantare”. Anche perché non è vanità ma, semplicemente lavoro, dedizione e sudore.