[di Emanuela Macrì – foto Fipav] Dal puro caso ai seggioloni di mezza Europa. Da un corso di formazione per arbitri frequentato senza troppa (o alcuna?) convinzione alla finale del Campionato Europeo femminile di pallavolo edizione 2019. Ilaria Vagni, romana d’origine ma perugina d’adozione, prima donna italiana arbitro internazionale, riassume così i suoi trentatré anni a bordo campo. Compresi tra un inizio incerto e l’ennesima stagione ai massimi livelli.
“In una storia che prosegue – racconta – anche perché in questo mondo ho trovato delle amicizie sincere, insieme all’amore per questo sport e quello della vita.” Quel collega, Francesco Piersanti, conosciuto perché designati entrambi per arbitrare la medesima partita, e quell’incontro che andrà ben oltre il triplice fischio finale e li poterà a diventare una famiglia. Ma anche a condividere la professione arbitrale, la passione per i gatti (tanto da consegnare le chiavi di casa nelle zampe di Camillo e Poppy) e completare l’opera diventando genitori di Michele, pallavolista e arbitro. Manco a dirlo.
Un coinvolgimento totale nel mondo volley. Anche se può accadere di percepire l’arbitro come una figura altra, quasi esterna alla partita. “Dietro, invece, c’è molto lavoro – prosegue Ilaria – un’attività che si prepara sotto diversi aspetti. Curando il lato della preparazione psicofisica, quello stato di benessere necessario per arrivare al giusto grado di concentrazione, per riuscire a focalizzarsi su quello che ti appresti a fare, impostando l’attenzione su quel “pensa ad adesso” che ripeto come un mantra mentre dietro di me si chiude la porta dello spogliatoio. Dall’altra, poi, c’è la preparazione tecnica, quello studio, come fanno i giocatori, delle squadre che si affronteranno, nell’intento di prevedere i contesti nel quale ci si deve muoversi.”
Per evitare, il più possibile, di trovarsi nella peggiore condizione possibile per un direttore di gara, quella di “non avere il polso della situazione, di perdere l’approvazione e la condivisione di chi sta in campo, in panchina o sugli spalti, in quel momento. La circostanza che ci si augura di non dover mai affrontare perché difficile da gestire e molto di più da riparare: un errore, infatti, è quasi sempre rimediabile, soprattutto oggi con l’ausilio degli strumenti tecnologici. Recuperare una situazione fuori controllo, invece, ha un margine davvero minimo, quasi nullo, di riuscita.”
Contestazioni che, in carriera, non sono mancate ma “sempre legate alla non condivisione di alcune scelte operate. Mai ho percepito una diffidenza nei miei confronti, e in quello di altre colleghe, perché donne. E questo perché nel movimento la presenza femminile, notevole già da molto tempo, non soffre di ostilità.
Credo che nei numeri, in Italia, siamo stati un po’ pionieri: quando ho iniziato l’attività, alla metà degli anni ’80, il tesseramento femminile nel mondo arbitrale era già una realtà consolidata. Ma non si tratta solo di quantità: nella pallavolo le designazioni riguardano tanto i campionati femminili che maschili. Non si fanno differenze di genere “. Cosa che in altri sport, invece, ancora oggi è appare quale traguardo da raggiungere.
“Infatti – ci tiene a sottolineare Ilaria – quando penso alla mia nomina internazionale e al fatto di essere stata la prima in Italia, non mi piace considerarla solo come una soddisfazione personale, perché sarebbe limitativo. Preferisco credere che essa sia stata, e continui ad essere, utile per tutto il movimento arbitrale, non solo femminile. Di aver lasciato un primo, importante, segno.”
Con il gusto, pieno, di veder riconosciuta tutta quella dedizione. Tutto quell’amore per il volley, in una carriera che già le aveva regalato mille emozioni. “Come la prima partita importante in serie A. Quella semifinale scudetto tra Piacenza e Busto Arsizio che, quasi letteralmente, ricordo palla per palla. Una di quelle gare che ti coinvolgono a tal punto che speri non finiscano mai. E che quell’ultimo pallone, anziché cadere a terra e chiudere i giochi, venga miracolosamente recuperato.”
Per poter allontanare il più possibile il momento di rientrare nello spogliatoio. Di chiudere la stagione o, se proprio, augurandosi di farlo nel migliore dei modi possibili. Come è accaduto nel recentissimo passato. “Con la designazione quale primo arbitro nella Final four di Eurolega maschile e, l’ultima in ordine di tempo, come secondo fischietto nella finale del Campionato europeo femminile giocata ad Ankara, dove ho condiviso la direzione con una collega che stimo e con la quale avevo già avuto il piacere di vivere l’esperienza di arbitrare in un Campionato europeo juniores. La ciliegina sulla (già ricca) torta stagionale.”
Niente male, dunque, per una donna che dal puro caso di un corso di formazione per arbitri frequentato senza troppa (o alcuna?) convinzione ora, da quel seggiolone conquistato con dedizione e lavoro, non vorrebbe, vuole, più scendere.