
[di Emanuela Macrì – foto EM] Poteva essere il solito romanzo transgenerazionale. Poteva trattarsi del solito tema trito al femminile, della solita lettura vacanziera che poi finisce su uno scaffale e chi se la ricorda più. Poteva. Ma Concita De Gregorio, invece, in Di madre in figlia (ed. Feltrinelli – 2025) fa di più.
Ci porta su un’isola, emblema perfetto della vita di Marilù, che ha tracciato confini ben precisi anche nel nome, abbreviandolo. Restringendolo nei suoi confini appunto. Così come la sua vita, la sua seconda. Dopo una prima in primo piano. Tra yacht e fotogrammi.
Un’isola su cui approda, senza alcuna intenzione di farlo, Adé. Adelaide, sua nipote, che a quella nonna che conosce poco, anzi nulla, forse somiglia più di quanto creda. In fin dei conti anche lei ha tracciato confini, abbreviandosi il nome.
Fuori dalle inquadrature, poi, c’è Angela. Figlia di Marilù e mamma di Adé. Lontana in ogni senso. Da una madre troppo poco incline al suo ruolo. Da una figlia per cui nel ruolo si è calata troppo, fin quasi a soffocarla.
Potrebbe essere il solito romanzo transgenerazionale. Non ci fosse il fuoco (chi ha letto, può capire NdR) di un linguaggio vivo. Attuale. Non letterario. Adeguato. Perfetto, per entrare nei pensieri delle protagoniste. E nei loro panni. Ecco il segreto di questo romanzo: l’empatia. Concita De Gregorio in 150 pagine riesce a portarci in mondo non nostri. Senza la tentazione di giudicarli. Solo per ascoltarli (insieme a un bel po’ di buona musica, su vinile. Ovviamente).
Consigliato, dunque? Sì. Almeno per trovare una lista di cose che fanno stare bene [una sedicenne dei nostri anni ma lontana dalla sua vita]. Ovvero:
- Mettere un vinile dei R.E.M e ascoltarlo stesa al buio.
- L’idea di andarmene.
- Pensare che c’è tempo. Non c’è fretta. Magari un giorno
- Gli uccelli che si parlano la mattina. I gatti che se ne fregano di tutto.
- Il vento fresco quando fa caldo.
- L’odore della buccia di limone.
- Cantare Losing My Religion.