[Di Alessia Giordano – Immagine www.larafarinella.com]
Il 23 febbraio del 2020 il Governo emana un’Ordinanza del Ministro della Salute che impone, su tutto il territorio nazionale, il divieto di spostarsi tra Regioni o Province diverse: inizia qui il percorso, dopo due anni ancora in atto, per fronteggiare l’emergenza da Coronavirus.
Milioni di studenti in DAD, milioni di dipendenti in cassa integrazione e altrettanti in smart working, milioni di concerti sospesi, milioni e milioni di attività interrotte per quello che tendiamo a definire “un benessere comune”.
<<Il lockdown ha bloccato tutto>>: è questo quello che ti senti dire da un giovane costretto a rimanere a casa, rinunciando, indiscutibilmente, alla sua immancabile routine. Ed è così. Il virus non solo ha fermato la nostra quotidianità, bensì anche le nostre relazioni, le nostre vite sociali. Ha portato alla luce tutti quei problemi su cui prima non abbiamo mai osato soffermarci; forse per paura, forse esclusivamente per pigrizia.
Ero sollevata all’inizio, l’idea di non dover andare a scuola per qualche giorno mi elettrizzava. Poter seguire le lezioni dalla mia scrivania e potermi portare avanti con i compiti che altrimenti avrei dovuto fare nel pomeriggio mi sembrava una bellissima occasione.
Poi hanno iniziato a chiudere i pub, i ristoranti, le palestre e il tempo a casa ha iniziato a starmi stretto.
Non era la scuola a mancarmi, non la voglia di intraprendere, un giorno, una lodevole carriera, ma le relazioni che, fino a quel momento, mi ero tanto impegnata a mantenere vive.
<<Il contatto fisico: la nostra prima forma di comunicazione. Sicurezza, protezione, conforto: tutto nella dolce carezza di un dito o di due labbra che sfiorano una guancia morbida. Ci unisce quando siamo felici, ci sostiene nei momenti di paura, ci emoziona nei momenti di passione e di amore. Abbiamo bisogno di quel tocco quasi come abbiamo bisogno di respirare. Ma non ho mai capito l’importanza di quel tocco, fino a quando non ho potuto più averlo>> (cit. tratta dal film A un metro da te).
È spaventoso vedere quante cose la quarantena ci abbia portato via e, allo stesso tempo, terrificante rendersi conto della spavalderia con cui ci siamo adattati a questo distacco comunitario.
Abbiamo paura di rimanere in stand-by, di restare appesi ad un filo dal quale non sappiamo se scenderemo mai. Perdiamo il nostro tempo attaccati ad uno schermo mostrandoci per quello che non siamo.
Invece di guardarci dentro e di trovare qualcosa che ci dia forza, che ci lasci l’occasione di essere fieri di noi, scegliamo di abbatterci dinanzi alla tentazione di inseguire falsi ideali di bellezza chiaramente irraggiungibili.
Crediamo che non sia producente differenziarsi dagli altri, perché solo confondendosi tra la massa possiamo realmente sentirci e dire di essere parte di qualcosa. La nostra incapacità di comunicare e di creare un vero legame con gli altri non sembra preoccuparci perché è semplice attribuire la colpa a quello che sta accadendo. Ma quando questa situazione finirà, cosa ci sarà rimasto? Un like in più e qualche fasullo rapporto virtuale? Bisognerebbe accorgersi di come stiamo lasciando scivolare via la parte di noi che più ci rende umani.
Non lasciamoci spaventare dal dolore perché la sofferenza equivale alla consapevolezza, se non di essere felici, quantomeno di essere capaci di provare realmente qualcosa.
Prendiamo in mano la nostra vita, accorgiamoci delle persone che ci circondano e lasciamoci invadere dalla speranza che “andrà tutto bene”.
Il decreto odierno dice:<<troppi cuori in zona rossa, distanziamento fisico non è distanziamento sociale>>.