Un soffitto costellato di gagliardetti, come un cielo notturno disseminato di stelle. È il soffitto del PalaVerde di Villorba, poco distante da Treviso, che con i suoi vessilli se ne sta lì a ricordarci tutte le pagine di storia dello sport scritte sotto il suo sguardo. Mentre silenzioso e maestoso sembra insegnare che per arrivare in alto, la strada, è sempre lunga e faticosa sì, ma la gloria che aspetta lassù è capace di far dimenticare ogni affanno dell’ascesa…
[di Emanuela Macrì – Foto Riccardo Giuliani]
Monica De Gennaro, sotto questo cielo, si allena e ci gioca da tre stagioni con la maglia della Imoco Volley. Dopo un viaggio meraviglioso e faticoso nello stesso tempo, dopo gli anni della palestra e delle giovanili, fino a quando “alle finali del campionato nazionale under15 – racconta Moki – insieme ad una stagione, mi giocavo l’occasione di una vita. Tra il pubblico, infatti, sedeva il talent-scout che mi avrebbe offerto quella possibilità che mi sarebbe mancata se fossi rimasta in Campania. Crescere, sportivamente, al sud non è semplice; lo era ancora meno qualche anno fa, quando le squadre di livello erano poche e ambire ad una carriera nel massimo campionato significava preparare una valigia e ricacciare in gola le lacrime e la nostalgia di casa”. E spiccare il volo, lasciare il nido di quella Libertas Sorrento che l’ha cresciuta, sportivamente.
Il Veneto, però, la sta aspettando e la decisione è nelle mani di Monica, come un pallone da giocare o riporre nella cesta, insieme agli altri. “I miei genitori mi hanno lasciato la libertà di scegliere, senza costrizioni né pressioni. Appoggiando qualsiasi decisione avessi preso. E così ho prenotato un biglietto per Vicenza, dove sapevo che avrei trovato una nuova squadra e, sulla panchina, il volto amico di Giuseppe Nica, l’allenatore che aveva lasciato Napoli dopo la proposta di un posto in terra vicentina”. Ma anche la vicinanza degli zii che vivono nella provincia di Verona e il lunedì, giorno di riposo, le fanno visita, per sostenerla e per alleviare il peso di quella distanza da casa, enorme in termini chilometrici e ancora peggio se si parla di affetti.
“La difficoltà dell’inizio è stata grande, davvero. Soprattutto – continua Monica – perché mi sentivo catapultata in un’altra dimensione: i ritmi e la vita a Vicenza, infatti, erano totalmente differenti da quelli di Piano di Sorrento. E poi si trattava di fare i conti con un’esistenza da organizzare, di crescere e imparare a confrontarsi con un nuovo mondo fatto di pasti da cucinare, lavatrici da programmare e di sveglie da puntare”. Nessun piano B o vie d’uscita d’emergenza ma soltanto Monica, le responsabilità da prendersi e tutta la sua tenacia. A quindici anni, un’impresa tutt’altro che facile.
Ma la volontà è tanta quanta l’ostinazione che vi si mescola ed insieme sono le componenti base di quella panacea per tutti i mali, soprattutto dell’anima, da assumere insieme ad un pallone, una rete e una palestra. Per lavar via tutti i malumori e le angosce di un domani in costruzione, reso migliore dall’arrivo a Vicenza, l’anno successivo, della sorella gemella Maria, nel ruolo di seconda palleggiatrice della squadra.
E far posto, piano piano, all’arrivo di un nuovo ruolo. Perché se la De Gennaro che approda a Vicenza da posto 4 riesce a mantenere la sua posizione in campo per due stagioni, in serie B1 prima e B2 poi, a decidere il suo futuro nel sestetto, ci pensano le chiamate in prima squadra per gli allenamenti in cui le richiedono di ricoprire soprattutto il ruolo di libero. E a scrivere a penna il destino ci sarà la convinzione, anche degli allenatori con il loro occhio lungo, che per arrivare a giocare nella massima serie, un cambio di ruolo sarebbe stata la soluzione da adottare.
“Un cambio – sottolinea Monica – radicale ma graduale, fortunatamente morbido: a quell’età a prevalere sullo spirito di squadra c’è, spesso, la voglia di schiacciare palloni e fare punto. A questo si aggiunge un particolare non di poco conto: il ruolo del libero, in quel momento, era ancora in rodaggio e non godeva certo della considerazione di oggi. Per me, dunque, significava adattarmi ad un ruolo di seconda linea, in tutti i sensi. Solo con il tempo avrei imparato ad apprezzarlo e capire che in quei sei metri avrei trovato molto di più”.
In quei seicento centimetri, infatti, c’è l’anima di una squadra da gestire, con le sue vele da governare e la rotta da tenere. “Per questo devo cercare di rimanere positiva e propositiva – osserva il numero 10 dell’Imoco Volley – senza abbassare mai il livello della concentrazione. Anche quando (e può succedere) per i primi 20 punti del set non ti arriva nemmeno un pallone mentre i successivi cinque punti si trasformano in una sequenza di difese e recuperi, errori da evitare o incassare. Senza cedere allo sconforto né lasciare il minimo spazio alla negatività”.
Un cambio, quindi, indovinato e fortunato. Anche se impegnativo. “Mi piace prendere le pallonate! E mi diverto quando la difesa è difficile e il recupero richiede qualche acrobazia, così come trovo rigeneranti gli sguardi d’intesa con le compagne. Sono piccoli momenti in campo, brividi sulla pelle difficili da tradurre in parole”.
Così come è complesso, se non impossibile, raccontare di quel premio e di quella finale sfiorata al Mondiale del 2014. “Il proposito della squadra era quello di affrontare l’avventura cercando di dare il massimo. Anche perché vincere un Mondiale in Italia, davanti al nostro pubblico seppur senza i favori del pronostico, sarebbe stata l’impresa perfetta. Arrivare alla fase finale, al Mediolanum Forum, comunque, è stata una dimostrazione di carattere, nonostante quel podio mancato per un soffio”.
Ma a rendere incancellabile dalla memoria quel 12 ottobre 2014 ad Assago sarà un premio, personale e inaspettato: il miglior libero del torneo, infatti, è lei, Monica De Gennaro, con quello stupore sul viso e tanta emozione negli occhi, per una medaglia che in realtà ne vale dieci, se non più. Perché appesi a quel nastro ci sono i giorni di lavoro in palestra, il peso delle trasferte e delle partite giocate senza risparmiare un grammo di fiato e sudore. Perché il premio, seppur personale, parla di sacrifici condivisi e di una famiglia a cui dedicare una carriera.
Proprio così, quella medaglia è anche di mamma Virginia, che per sopperire all’assenza dei pulmini, riempiva l’auto di giovani pallavoliste cariche di borse e sogni e le accompagnava nei palazzetti, scorazzando per le strade del napoletano, senza mai dire di no. È delle sorelle Giusy e Maria, che non l’hanno mai lasciata a secco di consigli e affetto, e di papà Marcello, che per mestiere si trova spesso lontano dalla terra ferma e che, nonostante non fosse riuscito a vedere nemmeno una partita di quel Mondiale 2014, si fa spedire i giornali in mezzo all’oceano, sopportando anche i ritardi delle consegne. Ma quella medaglia è anche di Daniele, il compagno di vita di Monica, da quest’anno con lei a Conegliano e all’Imoco Volley, “la persona con cui ho condiviso tutti gli alti e bassi di questi anni. La sua presenza è fondamentale, per l’appoggio e la comprensione, la quotidianità e l’equilibrio. Per festeggiare e sfogare le delusioni. Sì, quella medaglia è di tutti noi”
Sul viso di Moki, al ricordo, compare un sorriso fiero e tenero. Poi si fa seria e riflette: “Molti dicono che dovrei sorridere di più, perché troppo spesso sembro imbronciata. Ma non così. In partita ho bisogno di chiudere la porta alle distrazioni per rimanere concentrata. Fuori dal campo, invece, sono una persona riservata. Credo fermamente nella necessità di lavorare divertendosi, anche se sono convinta che questo non significhi per forza ridere o sorridere in continuazione. È il mio modo di pormi e di affrontare le cose, chiedendo il tempo e lo spazio per concedere fiducia e confidenza”.
Un leggero strato protettivo, che cela un cuore dolce e tanto calore, mentre protegge i sogni. Quali sogni? “Non li rivelerò tutti, per scaramanzia! – e sorride – Anche se non nascondo che vorrei vincere qui a Conegliano, per contribuire a regalare le prime gioie sportive a questa società che merita molto, anche e soprattutto per l’umanità delle persone che la compongono. E alzare un giorno gli occhi per veder brillare, sul quel soffitto, una parte del mio lavoro”.
Ma non è tutto… “E poi mi piacerebbe conquistare la qualificazione all’Olimpiade del 2016, con quella maglia della Nazionale che indosso con tanto onore, con l’orgoglio di cantare e vivere quell’inno e il peso di tanta responsabilità: è un azzurro da portare con consapevolezza, rispetto ed educazione, anche dopo il fischio finale. Un impegno con il Paese, da non sottovalutare mai”.
Sogni da spedire lassù, insomma, verso un cielo disseminato di stelle e un soffitto costellato di gagliardetti e storia. Senza smettere di credere che “Se sotto il cielo c’è qualcosa di speciale passerà di qui, prima o poi”.